Luca Signorelli nel Duomo di Orvieto

«Nella Madonna d’Orvieto, chiesa principale, finì di sua mano la cappella, che già vi aveva cominciato fra’ Giovanni da Fiesole, nella quale fece tutte le storie della fine del mondo con bizzarra e capricciosa invenzione». In questi termini Giorgio Vasari descrive l’impresa pittorica approntata da Luca Signorelli nella Cappella Nova del Duomo di Orvieto.

Detta anche di San Brizio, la denominazione di Cappella Nova rimase in auge fino al 1622, anno in cui al suo interno venne sistemata la venerata immagine della Vergine che in precedenza qui veniva esposta ogni anno il 13 novembre, giorno della fondazione del Duomo, coincidente proprio con la festa di san Brizio. La cappella, formata da due campate con volte a crociera, venne edificata sul lato opposto del transetto rispetto alla Cappella del Corporale, tra il 1406 e il 1425, sfruttando le strutture di sostegno innalzate nel Trecento da Lorenzo Maitani.

La decorazione della cappella iniziò nel 1447 per mano di fra’ Giovanni da Fiesole, meglio noto con il nome di Beato Angelico, il quale affrescò due vele della volta in corrispondenza dell’altare con le figure del Cristo giudice e del Coro dei Profeti. Tuttavia, nel settembre del 1449, visti anche i numerosi impegni che vedevano l’artista impegnato a Firenze come priore del convento di San Marco, il cantiere orvietano venne definitivamente abbandonato, lasciando incompiuto il grande progetto del Giudizio Universale orvietano.

I lavori rimasero interrotti per cinquant’anni, durante i quali i responsabili dell’Opera del Duomo tentarono senza sosta di trovare un degno successore del frate pittore. Vennero interpellati i più importanti artisti dell’epoca tra cui lo stesso Perugino, ma ogni trattativa finì per naufragare in un nulla di fatto. Soltanto nell’aprile del 1499 l’incarico di completare la decorazione delle due vele rimaste incompiute fu affidato a Luca Signorelli, in quegli anni impegnato presso l’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, nelle vicinanze di Siena. È proprio nella città toscana che si trovava, al seguito del cardinale Francesco Todeschini Piccolomini, Antonio Albèri, arcidiacono di Orvieto. Ricoprendo un ruolo di primo piano nella gestione della Fabbrica della cattedrale orvietana, è possibile dedurre che sia stato proprio Albèri l’artefice dell’ingaggio del magister Lucas de Cortona.

Una volta giunto nella città della rupe, Signorelli, come stabilito dal contrato del 5 aprile del 1499, si impegnava dunque a completare le due vele rimaste incompiute, utilizzando con ogni probabilità gli stessi disegni dell’Angelico, raffigurando i cori celesti degli Apostoli e degli Angeli con i simboli della Passione. Il lavoro eseguito da Signorelli soddisfece, sia per l’esito qualitativo che per la sorprendente velocità d’esecuzione, le aspettative dei committenti tanto che nel novembre dello stesso anno venne stipulato il contratto relativo alle vele della campata in corrispondenza dell’ingresso. Restava il problema della definizione del programma decorativo. Se come emerge dai documenti, non risulta che Beato Angelico, frate domenicano, fosse affiancato da esperti in materia teologica, nel caso di Signorelli, l’Opera del Duomo fece riferimento ai venerabiles magistri sacre pagine huius civitati, che avrebbero suggerito al pittore le scelte iconografiche più opportune. Tra questi teologi è molto probabile che ricoprirono un ruolo fondamentale sia fra Tommaso da Orvieto, priore del convento orvietano di San Domenico, sia lo stesso Albèri.

L’intenzione dell’Opera fu quella di non rompere con il precedente impianto iconografico e di proseguire dunque con il tema del Giudizio Universale. Su indicazione dei teologi, l’artista portò a compimento il soffitto della cappella raffigurando nelle vele d’ingresso I Martiri, le Vergini, i Patriarchi e i Dottori della Chiesa. Se Signorelli cerca di trovare una visione d’insieme coerente a quella del frate pittore, è nel trattamento della parete pittorica che emerge, almeno nelle volte, il primo grande elemento di rottura. L’Angelico, infatti, concepisce l’opera come una tavola soffermandosi su dettagli di squisita fattura, il pittore cortonese, al contrario, si concentra sulla resa plastica delle sue figure con pennellate veloci e decise.

Il 23 aprile del 1500, il pittore sottopose al vaglio dei committenti i progetti per gli affreschi delle pareti e quattro giorni dopo ricevette ufficialmente l’incarico di portare a termine la decorazione dell’intera cappella. Tra il 1499 e il 1504 Luca Signorelli illustrò nella Cappella di San Brizio il più importante ciclo rinascimentale dedicato alla trattazione di soggetti escatologici, comprendente Le Storie dell’Anticristo, il Finimondo, La Resurrezione della Carne, L’Inferno (o La cattura dei dannati), L’Antinferno, La Chiamata degli Eletti e Il Paradiso (o L’arrivo e l’incoronazione degli Eletti).

Luca Signorelli ha creato un mirabile effetto prospettico-illusionistico inserendo le grandi scene narrative e le decorazioni entro una falsa struttura architettonica, che sembra dilatare lo spazio della cappella sfondando le pareti verso l’infinito orizzonte delle visioni apocalittiche. Signorelli inserisce all’interno di questo vasto loggiato le sue potenti scene che prendono vita di fronte all’osservatore come fossero sul proscenio del grande teatro della Fine. Delimitate all’interno da una cornice a finta cassettonatura, le scene si dispiegano su un campo astratto quasi a volerne sottolineare il carattere atemporale e, da un punto di vista artistico, suggerendo la possibile intenzione di Signorelli di mantenere un legame quasi impercettibile con l’approccio compositivo del primo Rinascimento, in continuità con le pitture lasciate dall’Angelico nelle vele.

Il ciclo signorelliano nel Duomo di Orvieto si completa nella parte inferiore delle pareti con la serie dei ritratti degli Uomini Illustri che fungono da ideale supporto alle grandi scene delle pareti. Tra le paraste del colonnato, raffigurazioni di paraventi in cuoio dorato, istoriati a grottesche, incorniciano finestre dalle quali si affacciano figure di letterati ritratti nell’atto di leggere o scrivere. Ogni personaggio è circondato da quattro tondi che hanno la funzione di suggerire l’identità dello scrittore effigiato attraverso la rappresentazione, a monocromo, di storie tratte dalle sue opere. Nonostante ciò, l’identificazione dei personaggi è ancora dibattuta e la critica si ritrova unanime solamente nell’attribuire l’inconfondibile ritratto di Dante.

Giordano Conticelli