Cantiere pontificio
L’operato del vescovo Francesco Monaldeschi, grazie alla sua abile politica diplomatica nei confronti della Curia Romana, ottiene subito l’assenso del pontefice.
Nicola IV, ad Orvieto a partire dal 1290, non solo concede, su richiesta del presule, l’acquisizione delle proprietà del capitolo occupanti l’area deputata alla costruzione del Duomo, ma ricompone la vertenza nata tra il vescovo e il capitolo circa la ricostruzione delle case dei canonici (da questi voluta prima della demolizione degli alloggi esistenti).
Oltre a stabilire con precisione l’ubicazione ed i tempi di edificazione della chiesa, il lodo arbitrale stipulato dal papa per mezzo del suo notaio e camerlengo Nicola di Trevi, fissa anche il modello della nuova cattedrale, che doveva essere a somiglianza di Santa Maria Maggiore di Roma (ad instar Sancte Marie Maioris de Urbe); con tale riferimento dovrà essere colto non il disegno architettonico, ma più semplicemente la titolazione della nuova chiesa.
L’influsso positivo della corte pontificia sull’Opera- cantiere si attua soprattutto in due direzioni: quello della committenza, che si realizza in un cosmopolitismo delle maestranze, e quello dei finanziamenti, linea questa seguita in particolare da Bonifacio VIII, che nel 1297 destina alla cattedrale una donazione di 1000 fiorini e alcune rendite ecclesiastiche sull’abbazia di Santa Maria in Silva, nel territorio di Orvieto.
In questa fase iniziale dei lavori l’attenzione dei pontefici non apporta nessuna modifica di tipo “strutturale” all’Opera, che continua a ruotare attorno alla figura del vescovo e del suo operarius.


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